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Steve Jobs - Recensione

21/01/2016 | Recensioni |
Steve Jobs - Recensione

Non un biopic, ma un dramma in tre atti. Steve Jobs di Danny Boyle è ispirato a fatti della vita reale del geniale fondatore della Apple ma è sostanzialmente, come ha sottolineato il regista, “un’astrazione”. Alcuni eventi veri mescolati ad altri immaginati sono compressi all’interno di tre atti veri e propri collocati in tre anni cruciali in cui vennero lanciati tre prodotti iconici: il 1984 e Macintosh, il 1988 e il NeXTcube, il 1998 e l’iMac.
Steve Jobs è un film anomalo e dall’impianto decisamente teatrale: si svolge interamente nei backstage pochi minuti prima che avvenga il lancio dei tre prodotti appena ricordati.
Per tre volte, in location diverse, appaiono sei personaggi e, quaranta minuti prima di ogni presentazione, parlano fra loro. Sempre affiancato dal suo fedele braccio destro, Joanna Hoffman, Jobs, in forte stato di tensione emotiva, affronta gli imprevisti e i problemi dell’ultimo minuto che hanno diversi volti: la figlia Lisa (della quale non si assunse la paternità per anni), Chrisann Brennan (la madre della piccola), Steve Wozniak (il partner dei pionieristici inizi e co-fondatore della Apple), John Sculley (CEO della Apple), Andy Hertzfeld (l’ingegnere del software).

“Un viaggio diverso”, questo è quello che Boyle, per sua stessa ammissione, voleva che fosse il ‘suo’ Steve Jobs. Missione compiuta alla perfezione, viene da commentare, senza ombra di dubbio.
Il Jobs imprenditore e il Jobs uomo, ma innanzitutto il Jobs visionario. Un uomo con una visione dell’innovazione unica nel suo rifuggire l’omologazione, sempre e comunque, a qualsiasi costo.
Alla base del film c’è un sorprendente copione di Aaron Sorkin (già premio Oscar nel 2011 per la sceneggiatura di The Social Network in cui si tracciava un ritratto di Mark Zuckenberg, un altro uomo che ha cambiato il mondo), vero capolavoro di drammaturgia contemporanea, che racconta il lato oscuro, quello che sta dietro ai successi, ovvero le sconfitte, le frustrazioni, in qualche caso le umiliazioni.
Tre momenti, tre luoghi, tre prodotti, tre simboli di un percorso unico. Il primo atto, il lancio del Mac è visto un po’ come il mito della creazione della nostra epoca moderna, Jobs presenta il primo computer davvero ‘personal’, il primo computer umano (ma che allora non funzionò perché i tempi non erano ancora maturi). Il secondo atto, ovvero il lancio del computer NeXT come azione di vendetta contro la Apple (dalla quale era stato licenziato), ma il NeXT fu anche il sistema operativo che riportò Jobs alla Apple. Il terzo atto ci porta nel futuro, nel mondo del controllo globale dei dati: ed ecco l’iMac, il computer che ha introdotto internet nel nostro vivere quotidiano.
Geniale la trovata di girare i tre atti con tre diverse tecniche: i 16 mm del primo, i 35 mm del secondo, la telecamera digitale del terzo atto (una ALEXA dalla risoluzione altissima).
E’ come se le tre diverse tecniche incarnassero tradizione e innovazione, passato, presente e futuro, con Jobs intento a combattere le sue battaglie, in primis quella con Steve Wozniak, vera anima tecnologica della Apple, che ebbe l’ardire di spiattellargli in faccia la verità: e cioè che lui era un gigante di intuizione ma un “nano tecnologico”. Esente da qualsiasi tentativo di apologia o santificazione, il film attinge alla biografia di Walter Isaacson e mostra un Jobs che litiga animatamente: con la madre di sua figlia Lisa, della quale in un’intervista lui parlò dei suoi costumi disinvolti (compreso il fatto che secondo lui Lisa poteva essere figlia del 28% degli americani), con John Sculley amministratore delegato della Apple, che lo allontana dal consiglio d’amministrazione per risollevare l’azienda, quella con Herzfeld che accusò di aver mal programmato un pezzo di Mac, ma soprattutto quella con Wozniak con cui non ammise mai le sue mancanze (anzi arrivò a dire “I musicisti suonano gli strumenti, io dirigo l’orchestra”).
Jobs, un uomo con un’alta opinione di sé ma anche un uomo con tante carenze, la prima delle quali derivante dal fatto di essere stato abbandonato dai veri genitori e poi adottato (l’incontro con il genitore biologico in un ristorante è un siparietto aggiunto ‘ad hoc’).
Un uomo insomma di cui viene mostrata l’inettitudine emotiva e allo stesso tempo la genialità, un visionario sui generis la cui morte prematura ha consegnato al mito e al desiderio di santificazione. Complice la grandezza di un interprete straordinario (un Michael Fassbender in stato di grazia), con questo film Danny Boyle torna a dare il meglio di sé, come se l’entusiasmo che animava la vita di Steve Jobs avesse contagiato anche lui (non a caso in un’intervista il regista ha parlato di “osmosi, trasfusione indiretta di energia psichica ed emotiva da lui a me”).
Al di là dell’icona, al di là del mito, il Jobs di Boyle fa davvero un passo avanti su tutto (forse troppo) quello che era stato raccontato finora dal cinema (il biopic con Ashton Kutcher e diversi documentari) e da numerosi libri. Il film di Boyle racconta davvero un’altra storia, portando sul grande schermo un palcoscenico teatrale sul quale a dominare la scena è un uomo dalle mille contraddizioni e dalla genialità unica, ben riassunta da una frase diretta (emblematicamente fuori dall’ultimo “teatro” in cui sta per esibirsi) a quella figlia per cui era stato un padre assente, ‘rea’ di portare con sé un ingombrante walkman: “Ti metterò mille canzoni in tasca, perché non siamo selvaggi, e tu non puoi andare in giro con quel mattone al collo”.
Silenzio ora, l’uomo capace di stupire (e cambiare) le nostre vite, sta per salire sul palco. Su il sipario e che lo show abbia inizio.

Elena Bartoni
 

 


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