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Recensione di: Special Forces - Liberate l'ostaggio

08/05/2012 | Recensioni |
Recensione di: Special Forces - Liberate l'ostaggio

Una giornalista francese in Afghanistan viene rapita e tenuta in ostaggio da un gruppo di talebani, una squadra di Forze Speciali è inviata in missione a liberarla.
Quante volte una notizia di questo tipo ha riempito le prime pagine di giornali e notiziari televisivi?
La triste attualità di questi sequestri ha ispirato già diversi film.
La novità di Special Forces, sottotitolo italiano Liberate l’ostaggio (imperativo davvero superfluo), è che questa volta la super squadra di Forze Speciali, uomini specializzati in missioni delicate ad alto tasso di pericolosità, è di nazionalità francese.
La storia è quella di una corrispondente, Elsa Casanova (Diane Kruger) che, subito dopo aver registrato la coraggiosa confessione a volto scoperto di una giovane donna sugli abusi subiti da un gruppo di talebani, viene rapita da un commando capitanato dal famigerato leader Ahmed Zaief (Raz Degan). Una squadra di Forze Speciali capitanata dal Comandante Kovax (Djimon Hounsou) viene inviata a liberarla. Dopo un’irruzione nel covo dove sono tenuti in ostaggio Elsa e il suo collaboratore Amin, la squadra libera i due prigionieri. Ma Zaief e i suoi uomini si lanciano all’inseguimento. Ha così inizio una lunga caccia dei talebani, che non hanno alcuna intenzione di farsi sfuggire la loro prigioniera, al gruppo di sei soldati che rischiano la vita per portare a casa la giornalista viva.
Panorami mozzafiato, scontri durissimi, sangue, dolore, morte, in nome delle tante voci coraggiose di libertà, piccole guerre in mezzo allo scenario di grandi guerre.
Il genere è noto, fin troppo, ma fino ad ora quasi esclusiva prerogativa del cinema statunitense. La lista sarebbe lunghissima ma, a proposito di unità speciali, ci limitiamo solo a The Hurt Locker di Kathryn Bigelow. Un teatro di guerra, soprusi, violenze e pochi uomini, soldati con un forte senso del dovere e dell’onore ma soprattutto del sacrificio.
La parte migliore del film è quella centrale con la lotta dei nostri eroi contro la ferocia dei talebani ma anche contro la durezza del territorio aspro e ostile del Tagikistan, location scelta a simulare i paesaggi tra Afghanistan e Pakistan dove la vicenda è ambientata.
Rispetto ad altri film del genere, in questo caso le psicologie dei personaggi sono ben tratteggiate e il contesto culturale e religioso in cui si accende la miccia del rapimento è messo sufficientemente a fuoco. Le riprese sono spettacolari e la descrizione di tecniche e mezzi utilizzati dai militari nelle operazioni di salvataggio sono precise: d’altronde il curriculum del regista Stéphane Rybojad, che nella sua carriera ha diretto e prodotto più di cento documentari ambientati spesso in territori ad alto rischio, parla da solo. Questo suo primo lungometraggio di fiction è figlio di un precedente documentario sulle operazioni delle Forze Speciali in Afghanistan.
Certo, anche un regista finora rigoroso come Rybojad finisce per concedersi qualche facile battuta che sa un po’ troppo di eroismo buonista a buon mercato (“Voi avete paura come me! Io non vi odio però!” grida il più giovane dei soldati alla sua prima missione soccombendo al fuoco nemico) e per farsi tentare dalla parentesi romantica tra la bella giornalista (che ha il volto di Diane Kruger) e l’eroe più sensibile del gruppo interpretato dall’attore più noto del cast, Benoît Magimel, fresco della bella prova nel gioiellino Piccole bugie tra amici.
Un film pieno di eroismo e coraggio, girato con buona tecnica registica come se ne sono visti molti ma la dimensione umana dei suoi soldati colloca il film un gradino sopra rispetto alle numerose pellicole del genere dei navigati registi statunitensi.

Elena Bartoni      

 


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