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Recensione di: Gangor

11/03/2011 | Recensioni |
Recensione di: Gangor

Liberamente tratto dal racconto “Choli Ke Pichhe” (in italiano “Dietro il corsetto” e pubblicato da Filema in “La Trilogia del Seno”) della famosa e apprezzata scrittrice indiana Mahasweta Devi, “Gangor” è un film del regista teatrale e cinematografico (ma anche affermato documentarista) Italo Spinelli, presentato in Concorso allo scorso Festival Internazionale del Film di Roma. La pellicola si avvale di un’importante co-produzione italo-indiana, ed affronta un tema oltremodo importante e tragicamente attuale. Centro nevralgico della vicenda sono le storie di “comune ordinarietà” nella realtà tribale del  Bengala occidentale, dove vengono perpetrate violenze ed abusi di ogni tipo nei confronti delle donne. Ma tutto ciò, vuoi per cultura, vuoi per istinto di “conservazione”, viene celato al resto del mondo poiché considerato essenzialmente un fatto privato, e deputato ai soli membri delle micro comunità. E’ qui che entra in gioco il ruolo fondamentale di un reporter di nome Upin, che desideroso di rivelare tali nefandezze, per troppo tempo occultate persino dalla stampa, decide di mostrarne i veri volti. Ma una delle foto scattate a una giovane donna che allatta il proprio figlio, diventerà nello stesso tempo simbolo di ribellione e condanna per la donna, la quale ne subirà, più di altri, le conseguenze. La storia raccontata ha la forza della cronaca e della verità storica, tenta di portare a compimento la difficile funzione di dimostrare quali infinite contraddizioni persistano in quella che si autoproclama “la più grande democrazia del mondo”; un Paese, l’India, che nonostante sia la civiltà che ha dato i natali a libri come il Kamasutra o abbia edificato il Tempio del Sole di Konark (entrambi, in maniera del tutto esplicita, promotori di una sessualità disinvolta), sia nello stesso tempo profondamente ipocrita. Il film è indubbiamente apprezzabile nel suo intento, ma non lo è altrettanto per quel che riguarda la resa dal punto di vista cinematografico. La regia si perde quando, in corso d’opera, si trova a dover scegliere se essere un documentario o un film per la tv, soprattutto quando i dialoghi raggiungono dei livelli di didascalia tali dal rasentare il parossismo nei toni. Reali momenti di pathos, dei quali dovremmo essere investiti per il tema trattato, non trovano il giusto canale, a causa di una sceneggiatura che rivela tutto e subito e non lascia spazio a ragionamenti propri.

Serena Guidoni

 


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