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Due giorni, una notte - Recensione

12/11/2014 | Recensioni |
Due giorni, una notte - Recensione

Un sabato e una domenica, due giorni e una notte appunto. Ma si tratta di un weekend particolare, in cui è in gioco la vita di una persona, un fine settimana pieno di ansia e preoccupazione da trascorrere in un doloroso pellegrinaggio.
Due giorni e una notte è il tempo di cui dispone Sandra, impiegata in una fabbrica di pannelli solari, per andare dai suoi colleghi e convincerli a salvarla dal licenziamento.
Considerata l’anello debole della catena dai titolari della ditta perché in passato ha sofferto di depressione, Sandra è destinata ad essere mandata via: ai suoi colleghi viene offerto un bonus di mille euro se voteranno per il suo licenziamento. Dopo una prima votazione alla presenza di uno dei capi che sembra avesse condizionato i dipendenti, Sandra riesce a ottenere che il voto venga ripetuto il lunedì successivo, questa volta in segretezza. Ora la donna ha solo due giorni per convincere la maggioranza dei suoi colleghi a votare in suo favore rinunciando al bonus.
La lotta per convincere un gruppo di persone a cambiare parere su una condanna già espressa: su questo assunto di base, i fratelli Dardenne costruiscono Due giorni, una notte, film molto applaudito all’ultimo Festival di Cannes dove è stato presentato in concorso (i social network lo hanno immediatamente battezzato “il film definitivo sulle condizioni del lavoro oggi”).
Da più parti si è avvicinata la storia della protagonista a quella del condannato a morte che ha quasi tutta la giuria contraria (un solo giurato dovrà cercare di convincere gli altri a cambiare parere) nel capolavoro di Sydney Lumet La parola ai giurati. Sandra non è una detenuta nel braccio della morte, la  sua condanna è molto diversa, ma suona come “la” condanna a morte di questi nostri tempi (“non esisto, non sono niente, assolutamente invisibile” dice la protagonista a proposito della visione che pensa abbiano di lei i suoi colleghi). La perdita del posto di lavoro, di cui sono piene le cronache quotidiane, equivale infatti a perdita della dignità, dell’indipendenza, della libertà, ma soprattutto dell’identità.
Nel caso di tante piccole aziende (come quella del film), i destini dei lavoratori sono appannaggio esclusivo dei proprietari, essendo venute meno le rappresentanze sindacali. E così le sorti di tanti lavoratori sono in mano alla discrezionalità dei titolari. Ed ecco scatenarsi nel film una delle tante guerre tra poveri: gli operai hanno la possibilità di dire si o no a Sandra, ma ognuno hai dei buoni motivi in entrambi i casi. Per ciascuno dei colleghi, il bonus di mille euro è una necessità: chi ha un coniuge disoccupato, chi si è appena separato e deve ricominciare tutto da capo, chi sta cercando di risistemare casa, chi deve pagare gli studi ai figli, chi le bollette. Le difficoltà sono le stesse della protagonista ma diverse sono le reazioni del campionario di umanità dei colleghi di fronte alla richiesta: chi si fa negare perfino al citofono, chi ha paura, chi reagisce con violenza, chi si ricorda di un suo gesto di generosità del passato e si commuove. Età diverse, etnie diverse, situazioni diverse ma una sola cosa in comune: la paura, l’insicurezza, l’ansia del futuro, ma prima di tutto del presente. Coraggio, paura, egoismo, dignità, sono le tante facce che emergono da questa particolare galleria dei vinti.
Su tanta debolezza, il punto fermo è uno solo: la famiglia, l’unica cosa certa, l’unica solidarietà, il solo supporto su cui può contare la protagonista. Un marito che le è sempre accanto anzi, la incoraggia a lottare per se stessa e per il loro futuro, due figli comprensivi e complici (la bambina più grande aiuta perfino la mamma a cercare gli indirizzi dei colleghi sul suo computer). 
I Dardenne (che hanno definito il loro lavoro “non un film sulla crisi ma sulla solidarietà”) pedinano con la macchina da presa la loro protagonista, ma lo fanno con discrezione ed eleganza, senza mai giudicare nessuno dei personaggi. Sandra (cui offre il bel volto struccato una straordinaria Marion Cotillard sempre in jeans e canottiera) è una donna in apparenza fragile, incline al pianto e dipendente da dosi cospicue di psicofarmaci, tendente a sottostimare se stessa che però trova, nonostante tutto, la forza di reagire (“Ho lottato, sono felice” è la frase pronunciata dalla protagonista che più emoziona). Un personaggio autentico, profondamente umano, come tutti i protagonisti del cinema dei Dardenne, un cinema che racconta la realtà senza filtri o artifici, e che non ha paura di mostrare le sofferenze, le debolezze, le fragilità dell’essere umano, cioè la sua più profonda essenza.
Un film dallo stile asciutto ed essenziale, intenso, ma soprattutto vero, come drammaticamente vero e attuale è il messaggio contenuto nelle parole dei fratelli registi: “la solidarietà non va mai data per scontata, è una scelta morale”.

Elena Bartoni
 

 


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