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Magic in the Moonlight - Recensione

03/12/2014 | Recensioni |
Magic in the Moonlight - Recensione

Riecco Woody, più “magico” che mai. La sua nuova commedia vola lieve tra la poesia di un chiaro di luna e il mistero di sedute spiritiche che evocano le anime dei defunti, il tutto nella cornice, già magica di suo, della Costa Azzurra degli anni ’20.
Ma con la magia e l’aldilà Allen ha sempre giocato.
La magia e i “maghetti”, o prestigiatori che dir si voglia, sono apparsi in alcuni suoi monologhi e racconti, ma, per restare alla pagina cinematografica, come non ricordare il gioiellino d’ispirazione espressionista Ombre e nebbia e il più recente Scoop dove Woody stesso ritagliava per sé il ruolo del mago Splendini?
E che dire della schiera di ipnotizzatori che sono apparsi nei suoi film, da Broadway Danny Rose a La maledizione dello scorpione di giada, stretti parenti della sedicente indovina capace di predire il futuro di Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni?
Ma anche l’aldilà è stato sempre molto presente nei suoi film, ricordiamo solo la barca piena di anime defunte guidata da un turpe condottiero nel già citato Scoop.
Una passione, quella della magia, coltivata dal geniale cineasta fin da bambino quando era un appassionato apprendista stregone che passava ore a imparare i “trucchetti” del mestiere. Per sua stessa ammissione, prima di iniziare la carriera di regista, Allen voleva diventare un mago.
Questo suo Magic in the Moonlight rappresenta quindi un naturale traguardo di tante suggestioni.
Innanzitutto per l’epoca in cui è ambientato: quegli anni ’20 che sono anche il periodo d’oro di magia e spiritismo, un’epoca in cui spopolavano medium veri o imbroglioni e impazzavano maghi come Houdini o decifratori di enigmi come Arthur Conan Doyle, inventore di Sherlock Holmes e per di più attratto fortemente dall’occulto. Ma la vera faccia di Woody è sempre stata quella di un incrollabile realista, come in questo film il suo alter ego incarnato da un sorprendente quando inedito Colin Firth che interpreta Stanley Crawford, il più celebre mago della sua epoca che opera sotto le spoglie dell’illusionista cinese Wei Ling Soo.
Stanley, arrogante inglese pieno di sé, è noto per la sua totale  avversione per i finti medium.  Convinto da un suo vecchio amico, si reca in missione in Costa Azzurra nella bella residenza della famiglia Catledge dove vivono la madre Grace (Jacki Weaver) con il figlio Brice (Hamish Linklater) e la figlia Caroline (Erica Leerhsen). Stanley si presenta con la falsa identità dell’uomo d’affari Stanley Taplinger con lo scopo di smascherare la giovane chiaroveggente Sophie Baker (Emma Stone). La medium vive nella residenza insieme a sua madre (Marcia Gay Harden) ed è stata chiamata da Grace che è convinta che Sophie la possa aiutare a entrare in contatto con il marito defunto. Ma la giovane medium è anche oggetto della corte del giovane Brice che se ne è innamorato perdutamente. Fin dal primo incontro, Stanley la accusa di essere un’imbrogliona. Ma grande è la sorpresa quando Sophie mostra in diverse occasioni di vedere ciò che non poteva sapere e di leggere la mente, cose che sfuggono all’incrollabile razionalità di Stanley che inizia a chiedersi se i poteri della ragazza siano reali.
Razionalità contro irrazionalità, realismo contro spiritismo, e ancora, aldilà e aldiquà, ragione e sentimento, cervello e cuore (che Allen ha dichiarato essere i suoi organi preferiti). L’altalena è delle più piacevoli e affascinanti, condita da un fuoco di fila di battute irresistibili ma al tempo stesso profonde e argute.  
Il film di Allen è un delizioso, magico viaggio nel sud della Francia dove si consumano le schermaglie tra il prestigiatore cinico e arrogante e la sedicente medium dal viso delizioso e dalla mente scaltra, tra coppe di champagne, abiti color pastello, cappellini sfiziosi, auto decappottabili. Lui, specialista nell’arte dell’illusionismo ma nella vita reale un uomo scettico di fronte a tutto ciò che è spirituale, mistico e occulto, e lei, personalità magnetica, capace di indovinare con la forza della mente il carattere delle persone, il loro passato, i loro segreti. Due anime distanti che finiscono vicinissime, sullo sfondo degli ultimi bagliori di un’epoca, l’età d’oro de Il grande Gatsby di fitzgeraldiana memoria ormai vicina al crepuscolo.   
La scelta, il dilemma che spesso si trovano a dover affrontare i personaggi di Allen è anche qui tra realtà e illusione: questo è il nodo che anche questo protagonista deve sciogliere. Ma ciò che più conta è che Stanley (e con lui Allen) prenda coscienza che la cosa importante, ciò che ci mantiene vivi, è continuare a porsi domande, anche se si compie la scelta azzardata di lasciarsi trascinare dall’impulso e dall’irrazionalità, verso cose che non possono essere spiegate scientificamente o razionalmente. E alla fine dei conti per Allen è salutare e salvifico trovare conforto nell’illusione perché, come faceva dire ad uno dei suoi personaggi nel finale di Ombre e nebbia, “L’uomo ha bisogno di illusioni come dell’aria che respira”.
Tante le citazioni mescolate come al solito in un grande frullatore, da Nietzsche a Beethoven, da Kierkegaard alla musica jazz, fino all’ukulele (strumento suonato a bordo piscina da Brice, giovane corteggiatore di Sophie), forse un omaggio alla Marilyn di A qualcuno piace caldo, ma soprattutto una vecchia passione di Allen, abbandonata poi in favore di quelle più grandi per il sassofono e il clarinetto.
Musica e amore, passioni e ‘magie’ poco ultraterrene.
“L’occulto mi affascina ma sono una vittima del realismo - ha affermato il regista – e da quel che so la magia non esiste. Peccato, vero?”. 
Anche se quel punto interrogativo lascia aperto qualche dubbio, per ora Woody dichiara ancora una volta la sua fede incrollabile nel realismo e ‘nell’aldiquà’ perché tutto ‘l’aldilà’ che ci è permesso ‘di qua’, da vivi, è solo l’amore. 
E la vacanza del suo prestigiatore tra i luminosi panorami mozzafiato della Costa Azzurra sta lì a dimostrarlo.

Elena Bartoni  

 


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