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Big Eyes - Recensione

30/12/2014 | Recensioni |
Big Eyes - Recensione

Gli occhi sono lo specchio dell’anima, si dice. E così la pensava certamente Margaret Keane, pittrice americana che dipingeva ritratti di bambini con un solo inquietante tratto comune: occhi enormi e spropositati. Bimbi tutt’occhi, dalle orbite cerchiate di nero, strane creature ipnotiche, orfani scheletrici che fissano lo spettatore con aria smarrita e sofferente.
La storia vera di una giovane donna che, reduce da un primo matrimonio fallito, carica sulla sua auto la sua figlioletta insieme alla sua passione per la pittura, si trasferisce a San Francisco dove incontra Walter Keane pittore di mezza tacca che finisce per sposare ed esserne sempre più soggiogata al punto da farsi rubare le opere, è una scelta che può apparire a prima vista strana per quel folletto creativo che risponde al nome di Tim Burton.
Ma, a guardare più da vicino quei quadri dal gusto un po’ kistch, si può forse trovare la ragione di una bizzarra ma fatale attrazione.
Nell’America dei primi anni Sessanta quelle opere raggiungeranno uno straordinario quanto inaspettato successo grazie all’intuito da genio del marketing di Walter Keane che inventò la commercializzazione di massa dell’arte costruendo sue gallerie, pubblicando libri, poster, cartoline, con le riproduzioni dei quadri spacciati per propri per quasi un decennio. 
Il plagio che Keane opera nei confronti di una moglie debole procede di pari passo con una storia d’amore che diviene via via parabola di una sopraffazione. Solo dopo anni di bugie, Margaret riuscì a trovare la forza di denunciare una delle più leggendarie frodi artistiche della storia.
Forte della sceneggiatura di due maestri del biopic come Scott Alexander e Larry Karaszewski (premiati con il Golden Globe per Larry Flynt – Oltre lo scandalo e che avevano già lavorato con Burton per Ed Wood), Big Eyes trasferisce quell’universo dominato da un’inquietante visione nel mondo visionario di Tim Burton. 
Ma il film parla di qualcosa di più, forte della citazione di una celebre frase di Andy Warhol in apertura: l’ossessione per la fama e per il successo connessa alle perverse strategie di marketing nella nascente epoca del predominio assoluto dell’immagine.   
Come ha osservato lo sceneggiatore Alexander, “fu proprio Walter Keane a dire per primo: perché non dovremmo vendere l’arte al supermercato o nei grandi magazzini o in una stazione di servizio? All’epoca l’arte era ancora un fenomeno misterioso e lontano per la gente comune”. Ma, nonostante fossero tra le più vendute, le opere di Keane non erano accettate dal mondo dell’arte istituzionale che le giudicava kitsch. 
Big Eyes rappresenta certamente un caso unico nel particolare curriculum del regista californiano, non essendo né una fiaba gotica, né un fantasy cupo e cruento, ma un ritorno al biopic dopo l’esperienza ormai lontana di Ed Wood. Si tratta della realtà della provincia americana di fine anni Cinquanta e inizio anni Sessanta, fotografata con i toni pastello e con i colori  cipriati e un po’ flou del cinema dell’epoca. Si narra la storia di due persone, dalle nozze al divorzio, fino alla battaglia legale per la reale paternità dei famosi quadri dai grandi occhioni.  
Certo la suggestione di quello che è stato definito “lager oculare”, composto da orfani dallo sguardo da bambola, è forte, anche perché il regista si diverte a contaminare di quella specie di epidemia visiva molti personaggi del film, moltiplicando la suggestione.
Ed in effetti il regista è da anni ammiratore dell’arte dei Keane, fedele collezionista, ne possiede circa una mezza dozzina e conosce da tempo Margaret (oggi una signora ottantasettenne che ancora si diverte a dipingere) che ha influenzato molto le sue visioni per il grande schermo.
Con singolare coincidenza, i grandi occhi dipinti da Margaret Keane sono gli stessi occhioni di Frankenweenie capolavoro burtoniano del 2012. E che dire de La sposa cadavere (2005) inquietante creatura con gli stessi occhi dei bimbi della Keane? Una passione ancor più di vecchia data se si pensa che in Vincent, il suo cortometraggio d’esordio del 1982, il protagonista aveva due cornee alla Keane. E come non ricordare i grandi occhi di quel ‘Superman a rovescio’ chiamato Stainboy nella serie di animazione creata e diretta da Burton nel 2000?
Ma d’altronde tutto il cinema di Tim Burton è come un grande sogno ad occhi aperti, anzi apertissimi, solo che questa volta non è necessario ricorrere agli effetti speciali, abitudine consolidata per il regista. Qui basta l’arte a parlare da sola: quella figurativa si, che vive del commercio delle opere, ma anche quella cinematografica che ancor di più crea miti e vive di incassi e successi.
E così tutto torna magicamente nel corto circuito della visione tra cinema e arte.
Ancora una volta Burton sa giocare con l’epoca che mette in scena, gli anni della nascita della moderna arte serializzata (occhio ai barattoli warholiani di Campbell Soup in una delle sequenze più evocative del film) e lo fa senza effetti e con l’aiuto di due grandi interpreti come Amy Adams e Christoph Waltz (qui davvero scatenato, capace di tirare la corda del suo virtuosismo nella scena finale del tribunale ingaggiando un singolare duello con se stesso), quasi si trattasse di una necessaria (e felice) parentesi ‘umana’ nel suo cinema immaginifico, per mostrare, dietro gli occhioni dei dipinti della Keane, i suoi veri occhi.

Elena Bartoni 
 

 


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