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Recensione di: Ritratto di Signora

24/07/2011 | Recensioni |
Recensione di: Ritratto di Signora

“Non posso sfuggire al mio destino. Il mio destino è di non arrendermi, sposare Lord Warburton avrebbe significato avere molto ma rinunciare ad altre occasioni, occasioni di vivere, le occasioni e i rischi della vita”. 
Queste parole “incorniciano” il ritratto di Isabel Archer. La giovane americana in viaggio in Europa confessa all’amato cugino le ragioni che l’hanno spinta al sorprendente gesto di rifiutare la proposta di un uomo “troppo perfetto” parlando delle sue aspirazioni, del suo desiderio di libertà e della sua insofferenza a chiunque la possa costringere ad un “ruolo”. E’ il punto di partenza di un percorso complesso.
Il Ritratto di signora disegnato da Jane Campion segue infatti le linee di quello letterario di Henry James cui il film è ispirato, con l’aggiunta di colori, sfumature, lampi di modernità in un suadente amalgama fitto di una potente anche se spesso nascosta carnalità (quella carnalità altrove più manifesta, come nel caso del precedente lavoro della regista neozelandese Lezioni di piano).
Nel ritratto della sua signora (una Nicole Kidman in una delle prove migliori della sua carriera), la regista rappresenta una serie di “tratti” talvolta nascosti nelle pieghe del romanzo di James: palpiti, sensualità, brividi, desideri inconsci.
Un erotismo continuamente sussurrato, suggerito, evocato, percorre come una corrente sotterranea tutto il film, un erotismo fatto di parole quasi sospirate, gesti lenti e delicati, sguardi pieni di desiderio, senza esibizione di corpi, senza amplessi, senza gemiti. La passione può esplodere violenta anche tra corpi pesantemente vestiti: anche solo per lo sfiorarsi di due mani o per il gesto di accarezzare un volto. E così anche l’atto di far roteare un ombrellino parasole può svelare un immenso potenziale erotico come nella scena in cui un mefistofelico Osmond (un John Malkovich calato alla perfezione nel ruolo) seduce Isabel che, come ipnotizzata, cadrà nella rete di un matrimonio infelice.
Il punto di vista è ancora una volta quello femminile, come accade spesso nel cinema della regista neozelandese, in cui lo sguardo della protagonista produce e organizza il racconto secondo la tecnica del “punto di vista limitato” dove il sentimento amoroso è letto in soggettiva dagli occhi delle sue protagoniste. Isabel Archer è un’altra eroina in lotta contro le convenzioni sociali, una giovane donna alla ricerca del vero sentimento. Ma è un’altra donna prigioniera di pesanti costumi, (come già tante figure femminili del cinema della regista, dalla Ada di Lezioni di piano alla Fanny Brawne del più recente Bright Star: come dimenticare i loro strettissimi corpetti, le loro lunghe e fruscianti vesti, i loro cappellini?) che sogna di essere libera. Ada è muta e l’impossibilità del linguaggio la rendeva sensibile alla scoperta del vero lessico amoroso, Isabel vuole “vivere il mondo” e scoprirne rischi e occasioni ma è metaforicamente cieca nei confronti di quel mondo che è tanto ansiosa di scoprire finendo per restare prigioniera della sua stessa cecità, non vedendo i pericoli nascosti dietro i sussurri fatali di un uomo che diventerà un marito-mostro, Fanny  infine è come sorda ai richiami del sentimento fino a che i versi di un giovane poeta non le insegneranno a ‘sentire’ l’amore.
Un percorso accidentato, spesso colmo di dolore e infelicità, segna le scelte delle “signore” della Campion e le porta verso la scoperta della parte più irrazionale di sé stesse e, forse, della libertà.
L’amore infatti non riguarda la parte razionale dell’Io e spesso non sa fornire una spiegazione delle sue scelte perché non conosce le forze che le determinano: su questo terreno la regista ha tessuto la trama dei suoi lavori più riusciti. E’ vero. L’amore è rivelatore, aiuta a svelare ‘l’abisso folle’ che ci abita. Quell’abisso che desidera ardentemente espressioni che sappiano raggiungere le nostre regioni più lontane, per assaporare come spesso il piacere si intrecci col dolore e la luce con il buio. Quando incontriamo qualcuno che nel suo volto riflette questi abissi e che, come in uno specchio, ce li rinvia, è la discesa negli abissi del cuore. Amiamo l’altro perché tramite lui scopriamo noi stessi come l’altro tramite noi scopre sé stesso. Amiamo chi riflette i nostri abissi, una verità che il cinema della Campion ha tradotto in immagini potentissime.
L’incipit scelto dalla regista per aprire il film è spiazzante. Due voci femminili fuori campo: la prima più giovane parla del bacio e dell’attimo di meraviglia che lo precede, l’altra più matura ne evidenzia il potere unitivo parlando dell’uomo amato proprio come di uno specchio in cui ritrovarsi. E aggiunge “E’ come guardarsi in uno specchio, in uno specchio perfetto, lo specchio più fedele. Quando ami una persona diventa come uno specchio che ti fa vedere come sei”.
In un perfetto gioco di rimandi, come in un mosaico in cui tutte le tessere si collocano magicamente al loro posto, ecco Isabel nella scena finale fuggire dalle braccia di quello che forse è il vero amore. Ma la mano sulla maniglia che la riporta dentro casa si ferma e la giovane si volta indietro. Ha forse incrociato uno sguardo che riflette gli abissi del suo cuore e come uno specchio glieli rimanda? Sta scappando perché ha paura di scoprire davvero sé stessa? Lo “sguardo trasversale” della Campion dà vita a un finale diverso dalla pagina scritta di Henry James  che riconduceva Isabel alla sua prigione coniugale, incastrata, “framed” (come nella cornice del suo ritratto), in spazi chiusi, cupi e claustrofobici.
Mai finale sospeso è stato tanto rivelatore, quella corsa nella nebbia in slow-motion imprigionata da una lunga e pesante veste, quella mano sulla maniglia, il capo che si volta indietro e si ferma a guardare: davanti a sé la porta e uno spazio interno che la separerà dalla possibile felicità, dietro di sé lo spazio aperto del paesaggio innevato e forse l’amore. Isabel è divisa, dilaniata tra dentro e fuori, tra chiusura estrema ed apertura luminosa dello spazio.
Epilogo ambiguamente aperto (o apertamente ambiguo?) praticamente perfetto, un espediente già utilizzato dalla regista nel finale di Lezioni di piano. Qui la Campion lascia la decisione finale della “sua” signora in eloquente sospensione tra disillusione e desiderio, delusioni e aspirazioni, libertà e prigionia, scegliendo il primo piano sul regime dolce del suo sguardo. E se viva fosse ancora la sensazione che il suo destino sia di non arrendersi?

Elena Bartoni

 


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