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American Pastoral - Recensione

19/10/2016 | Recensioni |
American Pastoral - Recensione

L’adattamento di opere letterarie sul grande schermo è stato definito una sorta di “peccato originale” del cinema. E ciò è accaduto fin dagli albori della settima arte, sin da quando il nuovo mezzo tentò di superare la riproduzione meccanica della realtà. Fino ad oggi sono migliaia le opere cinematografiche realizzate “a partire da” romanzi, racconti, poemi, drammi o commedie.
Trasferire al cinema una grande pagina di letteratura insomma non è mai stata impresa semplice.
Era ovvio fin dall’inizio che per Ewan McGregor, al suo esordio nella regia, la sfida di far diventare film uno dei romanzi di maggior successo (vincitore del Premio Pulitzer nel 1998) del grande scrittore statunitense Philip Roth si rivelava titanica.
American Pastoral è un adattamento che semplifica e snellisce il grande romanzo di Roth, complice la sceneggiatura di John Romano, professore di inglese alla Columbia University.
Animato da improvviso “innamoramento” per la storia narrata da Roth, l’attore scozzese ha così deciso di cimentarsi con un impegnativo lavoro di regia ritagliandosi anche la parte del protagonista, lo “Svedese”, personaggio complesso e sfaccettato.
Attraverso il racconto di Nathan Zuckerman (alter ego di Roth) che si reca a una riunione di vecchi compagni di liceo e viene a conoscenza del destino dello Svedese dal fratello Jerry, con un salto indietro nel tempo risaliamo alla storia dello “Svedese”.
Siamo nel dopoguerra, il leggendario atleta del liceo Seymour Levov detto “lo Svedese” sposa Dawn, bellissima Miss New Jersey, eredita l’azienda multimilionaria di guanti del padre e inizia una vita di beatitudine, crescendo la sua amata figlia Merry in una grande casa di campagna nel tranquillo ed esclusivo quartiere di Old Rimrock nel New Jersey. In apparenza lo Svedese è un pilastro della sua comunità ammirato come uomo d’affari, boss caritatevole e devoto uomo di famiglia dotato di una incrollabile fiducia nel Sogno Americano. Ma negli anni ’60, un’ondata di proteste travolge l’America coinvolta nella guerra del Vietnam. In questo contesto, l’irrequieta Merry, sempre più impegnata politicamente, diventa la principale sospettata di un atto di violenza letale nella cittadina sconvolgendo il padre. Determinato a fare i conti con ciò che è successo a sua figlia, lo Svedese si imbarca in una missione molto difficile: ritrovare Merry ora in fuga dalla giustizia ma anche ricostruire la famiglia Levov e il suo cuore.

Il ‘Sogno Americano’ e il suo crollo, ma non solo. Il romanzo di Philip Roth è un grande affresco politico sull’America tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta e sull’assurdità di un conflitto che fece morti in Vietnam ma che lasciò la sua scia di sangue anche in patria. Lo scontro generazionale fu durissimo, una piaga sociale che divise i cittadini che accettarono in silenzio e coloro che si infiammarono al grido di “rivoluzione”.
Ma quando si ha a che fare con una pagina scritta pregna di contenuti e simboli, occorre fare una scelta e quella di McGregor è stata quella di concentrarsi sulla storia familiare narrata nel romanzo e in particolare sul sofferto rapporto che si instaura tra un padre e una figlia. Come ha osservato l’attore, “in un certo senso lo Svedese è il Sogno Americano e sua figlia Merry è gli anni ‘60”.
Ma rendere le complesse sfaccettature di un personaggio come lo Svedese non era cosa facile, a partire dalla sfida del passare del tempo.
L’aspetto più riuscito del film risiede in quello che lo Svedese rappresenta: un uomo che non smette mai di provare a essere l’individuo onesto e probo del mito americano ma la cui vita precipita proprio nella direzione opposta. Quando Levov sposa una bellissima Miss di origine irlandese cattolica (capace di conquistare anche il suo ebraico padre) e si trasferisce con lei in una tranquilla cittadina del New Jersey tutto sembra perfetto: ecco la quintessenza della giovane famiglia nella più classica periferia di campagna. Un atleta famoso e una reginetta di bellezza: speranze, aspirazioni, sogni dell’America del dopoguerra.
Ma le scelte sempre più drastiche di una figlia ribelle creano la spaccatura, in primis fra marito e moglie (lui cerca di ritrovare una figlia perduta e di tenere tutta la famiglia unita, lei adotta un meccanismo di difesa cercando di rimuovere emotivamente la storia ed andare avanti stoicamente in pieno contrasto col marito), anche se il vero contrasto su cui si concentra la seconda parte del film è quello tra un padre buono per natura e una figlia che diviene terrorista.
La regia di McGregor è lineare ma tentata da un facile didascalismo: dipinge qua e là con pennellate frettolose gli Stati Uniti della contestazione anti-Vietnam e si concentra sul suo protagonista e sulla sua famiglia destinata a implodere. La prova recitativa dell’attore scozzese è comunque onesta e sentita, mentre le due presenze femminili che lo affiancano danno il meglio: da una Jennifer Connelly perfetta tanto nel ritratto giovanile di Dawn, una reginetta di bellezza determinata a sposare l’uomo che ama, quanto nei panni di donna matura che decide di ringiovanire per cancellare i fantasmi di una mente vacillante, a una Dakota Fanning bravissima nel ruolo cruciale di Merry che interpreta dall’ardore adolescenziale dei 16 anni fino al delirio di una quarantenne aderente a una setta religiosa indiana.
American Pastoral è un film riuscito a metà, animato da buone intenzioni e da oneste prove recitative, il cui limite maggiore risiede nel non aver reso la complessità di un romanzo stratificato, capace di coniugare come pochi l’analisi del sociale con un dramma privato costellato di dubbi e sensi di colpa.
Con il suo ‘peccato originale’ insomma, McGregor ha rischiato troppo, addentando una mela (quasi) proibita.

Elena Bartoni
 

 


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