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The Greatest Showman - Recensione

24/12/2017 | Recensioni |
The Greatest Showman - Recensione

Signore e signori ecco a voi il più grande spettacolo delle feste di Natale 2017!
Preparatevi a sognare, cantare, battere il piedino sul pavimento, sorridere e commuovervi perché va in scena The Greatest Showman, la storia del più grande impresario circense di sempre, Phineas Taylor Barnum. 
Le vicende di un uomo stra-ordinario diventano ora un musical coinvolgente e frenetico che vede il debutto alla regia di Michael Gracey, ideatore di un progetto che ha impiegato otto anni prima di vedere il via alle riprese, complice una squadra di collaboratori di serie A, in primo luogo gli autori delle musiche, Benj Pasek e Justin Paul (le stesse menti che erano dietro a due canzoni ‘cult’ di La la Land, “City of Stars” e “Audition”), seguiti dal compositore John Debney (nomination all’Oscar per La passione di Cristo) e dallo sceneggiatore Bill Condon, autore di adattamenti cinematografici di musical di successo come Dreamgirls e La bella e la bestia.
P.T. Barnum era un uomo davvero singolare e per certi versi precursore dei tempi, per alcuni fu il vero inventore dal marketing. Figlio di un sarto ma instancabile sognatore, credeva nella possibilità reale di crearsi una nuova identità, fu un impresario, un politico, un editore, persino un filantropo.
Phineas Taylor Barnum iniziò a occuparsi di circhi in tarda età al culmine della sua carriera di imprenditore nel mondo dello show business. Dopo aver vinto le rigide convenzioni sociali ed aver sposato la rampolla alto borghese Charity, Phineas mette a segno il suo primo ‘colpo’ vincente con la creazione di un museo a New York che portava il suo nome e che radunava una moltitudine di ‘curiosità’ e ‘stranezze’. In seguito il museo diventò un circo che raccoglieva una serie di esibizioni di strane creature: la donna barbuta, il gigante irlandese (un colpo di genio di Barnum), il nano Tom Thumb. Barnum divenne poi anche impresario musicale (per amore della cantante Jenny Lind detta ‘l’usignolo svedese’) per poi tornare al suo ‘circo’ delle stranezze che fece diventare leggendario.  

Miseria e nobiltà, alto e basso, diversità e omologazione, intrattenimento popolare e arte nobile, The Greatest Showman è un musical fatto di contrasti come la storia (vera) che racconta, quella di un’esistenza speciale.
Il fulcro del messaggio degli spettacoli di Barnum è proprio qui, nel diritto alla libertà e all’uguaglianza di tutti gli esseri umani. Il tema del rapporto tra livelli sociali è messo in primo piano fin dall’incipit (il piccolo Phineas Taylor, figlio di un sarto, che corteggia la bambina figlia di un nobile intenta a imparare l’arte di bere una tazza di thè) per poi percorrere come un fil rouge tutto il film e trovare la sua più bella esemplificazione nella storia d’amore (quasi impossibile) tra il socio in affari di Barnum, Philip Carlyle, rampollo dell’alta borghesia newyorchese, e la trapezista di colore Anne (il loro passo a due acrobatico tra le funi è uno dei numeri più spettacolari del film).
Strettamente collegato al tema della diversità tra classi sociali è la ricerca di abolire le disuguaglianze e i pregiudizi verso la diversità (fisica e culturale) che occupò gran parte dell’esistenza di Barnum. D’altronde egli esemplificò in tutto e per tutto il ‘self-made man’ capace di vincere contando solo sue forze e capacità.
La forza e la portata di attualità del film risiedono proprio nel suo protagonista ed in quello che è capace di rappresentare: un genio del marketing (per molti inventore del concetto moderno di ‘hype’ ovvero la ‘montatura’ che in campo pubblicitario rappresenta la strategia atta a creare la forte attesa per un prodotto), un affabulatore capace di trovate da vero anticipatore della modernità come la pubblicità sulle fiancate degli autobus e sulle bottiglie del latte. Lo stesso Jackman è arrivato a paragonare Barnum a uno dei miti dei nostri tempi come Steve Jobs, un personaggio capace non solo di idee geniali ma di convincere gli altri a seguirlo e a decretarne il successo. Barnum inventò un sistema di propagazione delle notizie e di provocazione della curiosità davvero nuove. Ma era anche una figura controversa, che aveva dei lati oscuri, come la sua capacità di avere idee vincenti che si basavano sullo sfruttamento di quelle diversità che diceva di voler far accettare dall’opinione pubblica. Si potrebbe pensare che si arricchì sfruttando le deformità a cui lascava pochi spiccioli mentre dichiarava di voler mostrare la stravaganza per farla accettare.
Il circo di Barnum al massimo del suo successo era uno spettacolo davvero immenso: uno spazio che poteva ospitare 20.000 spettatori, le famose tre piste e quattro palchi. Acrobati, fenomeni da baraccone, saltimbanchi, animavano uno show fatto di eccessi. 
The Greatest Showman vanta coreografie da applauso, musiche trascinanti, costumi coloratissimi. Una messinscena favolosa, opera di Michalel Gracey, australiano e allievo di Baz Luhrmann (e le somiglianze con il capolavoro Moulin Rouge sono più che evidenti) che tra gli altri merito ha avuto quello di affidare a Hugh Jackman (che già aveva mostrato le sue doti canore nella versione musicale de Les Misérables) il ruolo del protagonista. A tenere il passo a Jackman sono il bravissimo Zac Efron nel ruolo del suo socio in affari Carlyle, la bella Michelle Williams nei panni della consorte di Barnum e la sorprendente Rebecca Ferguson (straordinarie le sue doti canore) chiamata a incarnare Jenny Lind. 
Spettacolo e sentimento (due storie d’amore animano la vicenda) vanno di pari passo in un film roboante, scintillante, eccessivo (lo stile è fortemente debitore del già citato capolavoro di Luhrmann) che supera di gran lunga l’intrattenimento circense che pure descrive e porta sotto la luce dei riflettori una figura modernissima, quasi un genio precursore dei tempi. Ritmo trascinante, magnificenza visiva, valori come coraggio, speranza, amore, ma soprattutto la fiducia incrollabile nei sogni, unico vero motore di una vita degna di essere vissuta.

Elena Bartoni

 

 


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