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Green Book - Recensione

26/10/2018 | Recensioni
Green Book - Recensione

Una pioggia di applausi per Viggo Mortensen, presente nella Sala Sinopoli dell’Auditorium capitolino, ha accolto la presentazione di Green Book alla Festa del Cinema di Roma.
Il titolo del film fa rifermento al libricino “The Negro Motorist Green Book”, una guida turistica pubblicata annualmente dal 1936 al 1966 che elencava le strutture, come locande, hotel e ristoranti, che ammettevano e servivano clienti di colore.
Attraverso il viaggio di due uomini diversissimi, per carattere, attitudini, background, classe sociale e colore della pelle, il film racconta il profondo Sud degli Stati Uniti d’America all’inizio degli anni Sessanta, il problema degli afroamericani in una grande fetta di territorio, le umiliazioni subite dai neri con le leggi razziali e i privilegi di cui godevano i bianchi.
Queste leggi mettevano limiti su dove i neri potessero mangiare, dormire, sedersi, fare acquisti e camminare. In una parola condizionavano ogni loro aspetto della vita quotidiana.
Alcune città avevano persino istituito delle leggi sul coprifuoco, che rendevano illegale per i neri andare in giro dopo il tramonto, pena l’arresto.
Attraverso l’esperienza del viaggio del protagonista, Johnny Lip, accanto al musicista di colore Doc Shirley, cambiò il modo di guardare il mondo perché si rese conto di cose che ignorava.
Green Book nasce dai racconti che Nick Vallelonga ha ascoltato da suo padre Tony sulla sua esperienza accanto a Shirley. Nick ha raccolto molte ore di audio e videotape con suo padre che raccontava la storia. Nick intervistò anche Shirley che aveva conosciuto come amico di famiglia.
Il film si svolge nel 1962 quando, dopo la chiusura del “Copacabana”, uno dei migliori club di New in cui lavorava come buttafuori, Tony Vallelonga, che si faceva chiamare da tutti Tony Lip, deve trovare subito un altro lavoro per mantenere la sua famiglia. Accetta così l’offerta di lavoro da parte del pianista afroamericano Don Shirley e decide di accompagnarlo come autista e tuttofare nella sua tourneé nel Sud degli Stati Uniti. Dopo gli iniziali contrasti e incomprensioni, fra i due uomini tanto diversi nascerà una forte e duratura amicizia.

A spasso con Don. Si potrebbe parafrasare così Green Book, giocando con uno dei titoli più celebri di quella Hollywood che cerca di raccontare la diversità con occhio critico e allo stesso tempo divertito. Anche l’indimenticabile A spasso con Daisy raccontava di un autista e di un ‘padrone’, di due persone di carattere e cultura diverse ma soprattutto dal color della pelle diversa. Nel film di Bruce Beresford la dicotomia era però più classica, l’anziana donna bianca e l’autista di colore, le diffidenze di una vedova benestante e la ‘sottomissione dignitosa’ del suo autista nero in venticinque anni di storia americana.
Nel film di Farrelly c’è però molto, molto di più.
Innanzitutto i ruoli, sorprendentemente invertiti: l’autista è bianco e il passeggero nero.
L’autista, ex buttafuori dai modi spicci, parla con accento italoamericano, ama la musica black, si ingozza (preferibilmente con le mani) di cibo continuamente (con una particolare predilezione per il pollo fritto del Kentucky), il passeggero è vestito elegantemente, ha movenze raffinate e un eloquio forbito.
Tony ha fatto molti lavori, ha persino guidato il camion della spazzatura, abita nel Bronx e ha una famiglia numerosa di origine italiana, un appartamento sempre affollato e con la tavola sempre imbandita. Don è un talentuoso pianista di fama, uno dei primi neri ad essere accettati in luoghi esclusivi e riservati all’èlite bianca, è istruito (ha studiato in Russia e a Londra), abita in un lussuoso appartamento sopra la Carnegie Hall nel cui salone spicca un trono sul quale ama sedersi, la sua unica compagnia è quella di un maggiordomo indiano.
I due impareranno a conoscersi e apprezzarsi durante un lungo viaggio nel cuore dell’America più razzista e intollerante. Il rapporto tra i due era inconsueto per i tempi: il nero dei quartieri alti e dal tenore di vita elevato e il bianco dei quartieri popolari. Ma, dando retta all’ignobile guida Green Book, è proprio l’altolocato Don a essere costretto a dormire e mangiare in locali di quart’ordine, mentre solo al bianco (e rozzo) Tony era concesso l’accesso ai migliori hotel e ristoranti.
A metà strada tra commedia e dramma, Green Book dipinge un affresco lucido e disarmante sulle discriminazioni razziali dei primi anni Sessanta nel cuore degli States. Un quadro che sembra lontano anni luce dai nostri tempi ma che in fondo non lo è, visto che cade in tempi di regressione ideologica e di rigurgiti di intolleranza dell’era Trump.
Sotto la patina di film leggero, Green Book si tiene lontano da certe pesantezze didascaliche o retoriche. Abituato a firmare commedie di grande successo e politicamente scorrette insieme al fratello Bobby, Peter Farrelly stupisce per la grazia e levità con cui dà una svolta creativa alla sua carriera dirigendo un film completamente riuscito. Complice un soggetto scritto da Nick Vallelonga con l’aiuto di Brian Currie e dello stesso Farrelly, Green Book indigna, commuove, diverte, intrattiene per 130 minuti raccontando una storia vera che fa riflettere sul passato ma anche sul presente di una democrazia piena, oggi più che mai, di contraddizioni.
Gran parte del merito della riuscita del film va a due interpreti perfetti, un Viggo Mortensen in stato di grazia, ingrassato di più di venti chili e dall’accento gustoso che presta il volto a Tony Lip e un Mahershala Ali (lanciatissimo dopo l’Oscar per Moonlight) che offre una prova senza sbavature nel ruolo di Don Shirley, colui di cui Igor Stravinsky disse: “la sua virtuosità è degna degli dei”.
Un film sorprendente e coraggioso che nasconde un messaggio universalmente valido.

Elena Bartoni  

 

 


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