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Recensione di: La rabbia giovane

08/02/2011 | Recensioni |
Recensione di: La rabbia giovane

Benvenuti nelle Badlands, le terre “cattive”, “maligne”, “malvagie” dipinte dalla cinepresa magica di Terrence Malick che con La rabbia giovane firma un esordio capolavoro, denso e allo stesso tempo vuoto, “a levare”, piano, dall’andamento lento come lo scorrere di un placido fiume. Come in tutti i film di Malick è proprio l’ambiente naturale a farla da padrone quale ineluttabile contro altare al procedere narrativo dei protagonisti, coinvolti volenti o nolenti in un viaggio interiore che è anche, e soprattutto, un viaggio fisico verso una meta imprecisata, vagheggiata, eterea.
Si configura, così, La rabbia giovane, come un road movie atipico per le badlands americane verso la non-meta, il nord (le montagne? Il Montana? sono qui solo simboli e nomi provvisori, pretesti); il viaggio come simbolo di ribellione, come ineluttabile spinta verso l’oltre, alla ricerca di una esistenza, della vita e della morte. Lo spazio cinematografico costruito da Malick trascende nella – e attraverso – la sua fisicità, delineandosi in un vasto mondo vuoto, assurdo, spettatore apparentemente immobile delle vicende dei suoi abitanti, altrettanto assurde comparse di un gioco senza fine, senza limite, spirale crudele entro cui finiscono i due protagonisti, senza poi, alla fine farvi più ritorno.
Kit, emulo scoperto di James Dean (riferendosi soprattutto a Gioventù bruciata), è il simbolo della ribellione indifferente che nell’indifferenza si attua. Il mondo descritto dalla camera di Malick è un mondo senza astio completamente indifferente, non tanto rispetto a quanto avviene (e in effetti le sequenze “d’archivio” che ci descrivono la reazione del gioco al massacro di Kit e Holly, mostrano una preoccupazione crescente della popolazione, paura persino), quanto rispetto all’ineluttabilità del fluire degli eventi stesso. I personaggi che i due incontrano via via sono personaggi costantemente calmi, pronti ad accettare (subire?) qualsiasi minaccia, qualsiasi ingiuria, perfino qualsiasi danno fisico o morale. Essi si rendono perfettamente conto di quello che sta accadendo e semplicemente lo accettano su di sè, limitandosi non tanto di comprenderlo, quanto perlomeno, di capirlo (“Perchè lo fate?”, “Pensi che sia matto?”). Dal padre di  Holly ai poliziotti che catturano Kit nessuno ha astio per ciò che Kit fa o ha fatto, massacrando tutti i testimoni della loro fuga verso il nulla, compresi gli amici. Indifferenza annoiata che si rispecchia nel personaggio di Holly , elemento passivo di un gioco che le piace fintanto che la diverte, o che le va, per poi abbandonarlo non appena stanca.
Il fluire degli eventi è sempre più simile allo scorrere del fiume: ad esso non ci si può opporre: si lascia che scorra. Così il mondo de La rabbia giovane, nulla metafisico incarnato nello spazio fisico e naturale inquadrato da Malick, è un mondo ove il fluire dell’uomo è ridotto a pura fisicità naturale, meccanico muoversi a cui la Natura malickiana resta indifferente in senso lato. Gli uomini sono sempre più piccoli nelle inquadrature di Malick, sempre soldatini in uno spazio immenso che accompagna realmente e spiritualmente il viaggiare dei protagonisti: il tramonto, la notte (“al tramonto Kit sentì che stava giungendo la fine” salvo poi riprendersi all’alba, il nuovo giorno e nuova vita). E tuttavia non c’è alcun salto morale, come ci si aspetterebbe da un viaggio, topos della crescita dell’eroe: al contrario tutto rimane lungo la linearaità della vita biologica e i protagonisti non sono che ingranaggi di un meccanismo più grande di loro a cui nessuno può opporsi. I poliziotti si limitano a fare il loro lavoro e tuttavia finiscono, paradossalmente, per stimare Kit, accettandolo come parte del gioco, parte della natura stessa del loro essere punti dell’universo dediti a uno scopo che a loro non spetta comprendere o tanto meno giudicare.
In questa nullificazione dell’aspetto morale, il discorso malickiano perde l’aderenza con la storicità degli eventi e si pone lungo un piano metafisico, evidenziano il viaggio dei due come un lungo percorso a ritroso di congedo dalle cose degli uomini. A partire dall’incendio della casa paterna, passando per il complesso rifugio lungo il fiume, fino al vagabondaggio più estremo: e di volta in volta gli ultimi oggetti di una vita di uomini (l’abat-jour, il quadro, i vestiti) vengono di volta abbandonati, seppelliti, affidati ad un pallone da pochi centesimi, buttati via nella foga dell’ultima fuga. Questo lungo congedo, di ritorno ad una sorta di stato di natura, passando da uomini a puri elementi del meccanismo naturale, è come l'inarrestabile corrente di un fiume, verso la nullificazione assoluta del proprio sé. In queste terre cattive, aspre, vuote si svolge dunque il gelido spettacolo dell’universo quale unicum ontologico, meccanicisticamente determinato, popolato da sagome vuote e indifferenti, dove l’ultima ribellione è l’estrema nullificazione che si dissolve nella natura tout-court, sia il viaggio di congedo portato naturalmente a termine (la dissolvenza verso le montagne) o provocato artificialmente nel pigro ricostituirsi di un sistema (la sedia elettrica). Alla fine, di fronte a questo singolare essere che si ribella al particolare per assurgere all’universale non rimane che un ultimo commento: “sei proprio un bel tipo, Kit”.

Lorenzo Conte

 


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