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Boots – Recensione

La nuova dramedy militare di Netflix sorprende per autenticità e coraggio

Firmata da Andy Parker (Tales of the City) e tratta dal memoir di Greg Cope White, The Pink Marine, la nuova serie Netflix Boots affronta un tema delicato e ancora poco esplorato: essere gay nell’esercito statunitense ai tempi della politica del Don’t Ask, Don’t Tell. Ambientata negli anni ’90, quando dichiararsi apertamente omosessuali nelle forze armate era ancora illegale, la serie arriva nel 2025 — in un contesto sociale radicalmente diverso — e riesce a evitare sia l’eccessiva prudenza che il dramma forzato. Il risultato è una commedia drammatica sorprendentemente autentica, capace di bilanciare ironia, tenerezza e dolore con grande sensibilità.

Trama: crescere, nascondersi e sopravvivere

Il protagonista è Cameron Cope, interpretato da Miles Heizer (Tredici, Tuo, Simon), un adolescente timido, apatico e chiuso nella propria identità, che vive con la madre ansiosa e imprevedibile, Barbara (una straordinaria Vera Farmiga). Spinto dall’amico Ray McAffey (Liam Oh), figlio di un rispettato Marine, Cameron decide di arruolarsi nel Corpo dei Marines, insieme a un gruppo di giovani reclute dal carattere molto diverso.

La vita militare si rivela durissima, ma per Cameron la vera battaglia è un’altra: nascondere la propria omosessualità in un ambiente in cui la diversità è ancora un tabù. A rendere tutto più complesso c’è il sergente Robert “Bobby” Sullivan (interpretato da Max Parker, già visto in Doctor Who), un uomo autoritario ma tormentato, la cui storia personale si intreccia con quella di Cameron. Col passare degli episodi, scopriamo che anche Sullivan è gay e vive un profondo conflitto interiore dopo una relazione segreta finita tragicamente.

Un equilibrio perfetto tra dramma e ironia

La forza di Boots sta nella sua capacità di affrontare temi drammatici — la discriminazione, la vergogna, la violenza istituzionale — con un tono sorprendentemente leggero e umano. Non è un Full Metal Jacket in chiave queer, ma una serie che riesce a far convivere crudeltà e commozione, trauma e humor.

Un soldato gay che parla de Le ragazze di Golden nelle camerate, dichiarando “Mi sento proprio una Rose”, è una scena esilarante, ma anche una forma di resistenza affettuosa in un mondo che lo vorrebbe invisibile. Le citazioni pop, le playlist nostalgiche e persino le immancabili scene sotto la doccia non scadono nel cliché, ma diventano strumenti per esplorare la tensione costante tra intimità e paura.

La serie non rinuncia però al dolore: la morte di un commilitone, le persecuzioni interne e il tormento di Sullivan mostrano con lucidità le conseguenze di un sistema che puniva l’amore.

Un cast corale di grande spessore

Se Heizer offre una prova delicata e sincera, è Max Parker a rubare la scena. Il suo Sullivan, fisicamente imponente ma emotivamente fragile, diventa il vero cuore della serie, un uomo distrutto dalla repressione e dalla colpa. Accanto a loro spiccano Johnathan Nieves (l’ingenua recluta Ochoa), Angus O’Brien (l’esplosivo Hicks) e Ana Ajora, impeccabile nel ruolo della capitana Fajardo, esempio di rigore e umanità.

Vera Farmiga, come sempre, illumina ogni scena in cui appare: la sua Barbara, madre nevrotica e amorevole, è una presenza destabilizzante ma profondamente empatica, un personaggio che incarna il caos dell’amore incondizionato.

Un’eredità importante

Boots si chiude con un omaggio a Norman Lear, leggendario produttore televisivo e pioniere del racconto sociale in TV, che riceve un credito postumo come produttore esecutivo. È un tributo perfetto: la serie è audace, empatica e profondamente umana, proprio come l’eredità che Lear ha lasciato alla cultura americana.

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