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Black Phone 2 – Recensione

Nelle mani sbagliate, i sequel possono diventare una trappola commerciale: quando un film come Sinister o Black Phone incassa bene, è naturale che i produttori sentano il desiderio di “raddoppiare la posta”. Ma quando a guidare il progetto ci sono Scott Derrickson e C. Robert Cargill, l’obiettivo non è spremere una formula vincente, bensì reinventarla. Con Black Phone 2, i due autori realizzano uno dei seguiti horror più originali e audaci degli ultimi anni — un incubo che, per intensità e visione, ci porta il più vicino possibile a un moderno Nightmare – Dal profondo della notte.

Basato sul racconto autoconclusivo di Joe Hill, il primo Black Phone non era pensato per avere un seguito. Eppure Derrickson e Cargill scelgono di avventurarsi in territorio inesplorato, trasformando quella mancanza di punti di riferimento nel loro più grande vantaggio. Ethan Hawke torna nei panni del famigerato Rapace — non più un assassino in carne e ossa, ma una presenza demoniaca che abita gli incubi. Non è un semplice “ritorno alla Freddy Krueger”: il nuovo film rielabora l’orrore del precedente, elevandolo a qualcosa di più psicologico, surreale e visivamente potente.

Black Phone 2 è un sequel punk rock: ribelle, inquieto e libero da regole. I protagonisti del primo film, Finney (ancora interpretato da Mason Thames) e Gwen (Madeleine McGraw), sono segnati dai traumi del passato. Finney si rifugia nella droga per placare i suoi fantasmi, mentre Gwen sviluppa nuove capacità medianiche, entrando in contatto con le anime perdute. La tranquilla Denver lascia spazio a un nuovo scenario: un campo invernale cattolico sulle montagne, dove la neve e il gelo diventano metafore di un dolore ancora congelato.

Nel cast spicca Demián Bichir, nei panni di un supervisore religioso che introduce una dimensione teologica inedita, contrapposta alla brutalità dell’orrore. Il film si prende i suoi tempi, scavando nella psicologia dei protagonisti, ma quando il Rapace torna in azione, l’incubo esplode in tutta la sua violenza visiva e simbolica.

Derrickson gioca con il linguaggio del cinema horror classico, alternando realtà e sogno attraverso l’uso della pellicola Super 8: le sequenze oniriche, in cui Gwen affronta il suo carnefice, hanno un fascino “Hollyweird”, tra Lynch e Craven, e si fondono in modo spiazzante con la crudezza della realtà. Il risultato è un ibrido tra slasher e ghost story, dove la violenza fisica si intreccia al dolore emotivo.

Pur restando un film cupo e introspettivo, Black Phone 2 riesce a rinnovare i cliché del genere. L’ironia non manca — basti pensare agli inquietanti pupazzi di neve con il sorriso del Rapace — ma ogni elemento contribuisce a una riflessione più ampia su trauma, redenzione e libertà interiore.

Hawke è semplicemente magnetico: il suo Rapace, ormai un revenant dall’aspetto bruciato e spettrale, è un simbolo di colpa e punizione, un fantasma che non può smettere di perseguitare le proprie vittime. Derrickson e Cargill, invece, mostrano che un sequel può ancora osare, sorprendere e, soprattutto, commuovere.

In fondo, Black Phone 2 non è solo un film dell’orrore. È un viaggio nel dolore, nella paura e nella possibilità di rinascita. Un incubo che, tra sangue e redenzione, riesce a lasciarci paradossalmente speranzosi — e affamati di un terzo capitolo.

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